La gastronomia del territorio romagnolo è caratterizzata ancora oggi da molti prodotti “a chilometro 0” e continua a soddisfare i buongustai locali ed i turisti. Cappelletti, strozzapreti, passatelli, galletto in umido, castrato, braciole, salsicce. Per i più la gastronomia romagnola è tutta racchiusa in piatti come questi che sono, del resto, i più noti ed i più conosciuti. E’ però più esatto dire che questa è la cucina tradizionale della pianura, di quell’ampia fascia sub-collinare che arriva a lambire le valli e gli acquitrini della costa adriatica. Si fonda strategicamente su quanto stava “attorno alla casa”, vale a dire nell’orto, nel campo, nel pollaio. E ciò non solo in campagna, come è naturale, ma anche in città, almeno nelle periferie: quanti cortili destinati ad orto, quanti “bassi comodi” trasformati in pollai, per non dire del maiale lasciato, ogni anno, a pensione dal contadino di fiducia!
Caratteristiche totalmente differenti assumeva invece l’alimentazione dove non erano purtroppo disponibili queste risorse e si doveva vivere con quel che passava madre natura, nelle valli appenniniche oppure lungo la costa adriatica. Di conseguenza la cucina di queste zone è meno varia e ragionata di quella di pianura, frutto più dell’occasione che delle scelta, ma ugualmente gustosa e degna di essere oggi riproposta. Così, all’insegna dell’essenzialità e, insieme, della necessità di dover fare a meno della carne da brodo, sulle tavole compare la minestra matta, a base di un soffritto di odori, pomodori e poca pancetta, a cui si aggiungeva acqua calda. In questo brodo finivano poi ritagli di sfoglia ed erbette come spinaci, biete e, in stagione, le saporite erbe commestibili dei campi e dei fossi. Tra i piatti del preappennino romagnolo compare però anche qualcosa di più elaborato e cioè un’ennesima versione della pasta ripiena che è segno distintivo di tutta la Regione. Si tratta dei saporiti ravioli, farciti con un impasto che ha sostituito alla ricotta e al raviggiolo dei cappelletti, le più umili patate lesse, arricchite, quando andava bene, da pancetta e lardo. Un piatto da giorni di festa che ancor oggi è da grandi ricorrenze se cosparso con qualche scaglia di tartufo, a testimonianza del fatto che il bosco è pure capace di offrire autentiche prelibatezze.
Uguale semplicità nella cucina marinara, chiamata da sempre a fare i conti non solo con quanto Nettuno lasciava nelle reti, ma pure con quel poco che restava dalla commercializzazione del pescato. E così ecco le “poverazze“, telline brutte a vedersi ma saporitissime, i cannelli, particolari molluschi a forma di bastoncino, oggetto di un’ attenta ricerca durante le tante giornate estive trascorse in spiaggia e poi la saraghina, le sarde, i sardoni da mandare in graticola oppure, se troppo minuto, da friggere o marinare. Ma non si può dimenticare il brodetto, una particolare zuppa di pesce, non troppo lontana dal caciucco o dalla buridda delle coste tirreniche. Pensate che solo al brodetto, per l’esattezza quello di Cesenatico, è toccata la gloria di essere immortalato in pagine di grande letteratura. E’ infatti il brodetto, da commercializzare in conserva, prima il grande sogno poi la disperazione di Mondo, il marito dell’Andreana, protagonista dell’omonimo romanzo del grande Marino Moretti.
Si può quindi, a buon diritto, parlare di “mangiari” romagnoli, in ragione della forte tipizzazione che le preparazioni hanno avuto sul mare, nella pianura, in collina. Come comune denominatore sta, comunque, oltre all’immancabile Piadina Romagnola, un costante rispetto della materia prima, specie quella animale: con umidi che non affogano nel liquido di cottura, grigliate che non spappolano le carni, fritti che non distruggono i tessuti connettivi. Una cucina diversa, molto diversa da quella emiliana, che ha sempre privilegiato la sostanza del prodotto sulla decorazione e l’abbellimento. Forse perché da queste parti, dov’è nato il grande Pellegrino Artusi, non sono mai arrivate le finezze delle varie signorie succedutesi in Emilia. Tanto che qualche critico ad oltranza ha detto che qui non c’è stato Rinascimento e che si celebra ancora il Medioevo alimentare, col trionfo del piacere della convivialità, che troppo spesso da altre parti viene rimpianto come un ricordo del bel tempo che fu.